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26/02/2020

Asservimenti per installazione di infrastrutture di interesse pubblico: la sanatoria è ammessa

Sulla scorta delle precedenti decisioni nn. 2, 3 e 4 del 20 gennaio 2020, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si pronuncia nuovamente sulle “occupazioni illegittime”, stavolta declinate sotto l’aspetto dell’asservimento. Secondo il Collegio la sanatoria è compatibile anche con una pronuncia restitutoria in sede civile. L’obiettivo è “sanare”!

Nota a cura di Emanuela Pellicciotti
Avvocato Cassazionista del Foro di Roma, esperta in procedure espropriative

 

SANATORIA DELLE OCCUPAZIONI SINE TITULO, LE PRONUNCE 2, 3 E 4/2020 DELL’ADUNANZA PLENARIA
Il 20 gennaio 2020, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato aveva emesso tre distinte pronunce in materia di espropriazioni per pubblica utilità (C. Stato, A.P., 20/01/2020, n. 2; C. Stato, A.P., 20/01/2020, n. 3; C. Stato, A.P., 20/01/2020, n. 4) - in particolare per quanto concerne l’aspetto delle c.d. “occupazioni sine titulo”, disciplinate dall’art. 42-bis del D.P.R. 327/2001.
Si veda in proposito Occupazioni illegittime della P.A.: stop alla rinuncia abdicativa.

Dopo una lunga stagione in cui l’art. 43 del D.P.R. 327/2001 (i cui contenuti sono stati sostanzialmente riproposti dal Legislatore nell’art. 42-bis del D.P.R. 327/2001 medesimo) era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Consulta (Corte Cost. 08/10/2010, n. 293) il supremo organo della Giustizia amministrativa ripropone la sanatoria delle opere pubbliche o di interesse pubblico realizzate “senza titolo”, o in forza di una dichiarazione di pubblica utilità ormai scaduta alla data di apprensione del terreno.
Con le menzionate decisioni (C. Stato, A.P., 20/01/2020, n. 2; C. Stato, A.P., 20/01/2020, n. 3; C. Stato, A.P., 20/01/2020, n. 4) sono stati affrontati casi concreti in cui, pur partendo dall’analisi di diverse sfumature di apprensione dell’immobile sine titulo, l’Adunanza Plenaria perviene all’identica conclusione della necessità di procedere alla sanatoria mediante la procedura ex art. 42-bis del D.P.R. 327/2001, ovvero la corrispondente formula di trasferimento in forma di atto fra privati sostitutivo (e con identica valenza) dell’atto amministrativo, di cui all’art. 45 del D.P.R. 327/2001.

L’ACQUISIZIONE SINE TITULO DEL DIRITTO DI ASSERVIMENTO E LA PRONUNCIA 5/2020
A non diversa conclusione si è pervenuti con la decisione C. Stato, A.P., 20/01/2020, n. 5, con la quale - esaurendo idealmente il panorama delle diverse tipologie di procedure coattive - è stato affrontato il tema dell’acquisizione sine titulo del diritto di asservimento, di cui all’art. 44 del D.P.R. 327/2001, o, se si preferisce, di cui all’art. 42-bis del D.P.R. 327/2001, comma 6, che sembra suggerire un’ampia la casistica e recita: “Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l’autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all’eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia”.
Stavolta, però, l’Ordinanza di rimessione poneva un quesito in più: cosa succede se il proprietario dell’immobile ottiene un giudicato restitutorio favorevole in sede civile?

Per rispondere a questa domanda, l’Adunanza Plenaria preliminarmente cita i suoi stessi precedenti (cioè, le decisioni: C. Stato, A.P., 20/01/2020, n. 2; C. Stato, A.P., 20/01/2020, n. 4; C. Stato, A.P., 09/02/2016, n. 2) da cui le più recenti prendono le mosse e si evolvono) e ne conferma i principi:
1) per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis del D.P.R. 327/2001, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva, e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata;
2) per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42-bis del D.P.R. 327/2001, la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo.

Ricorda, poi, le funzioni dell’art. 42-bis del D.P.R. 327/2001, qualificandolo come una “disposizione di chiusura” del sistema e affermando che tale articolo trova quindi possibile applicazione in tutti i casi in cui un bene immobile, che si trovi nella disponibilità dell’amministrazione, sia stato da questa utilizzato (o sia da questa in corso di utilizzazione), e dunque modificato nella sua consistenza materiale, per finalità di pubblico interesse; finalità che denota l’agire dell’amministrazione quale pubblica autorità.

L’Adunanza Plenaria (C. Stato, A.P., 09/02/2016, n. 2) ha già affermato come l’art. 42-bis del D.P.R. 327/2001 “introduce una norma di natura eccezionale” e che l’acquisizione ivi prevista “costituisce una delle possibili cause legali di estinzione di un fatto illecito”. L’articolo “configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata sine titulo”.

Dunque, la servitù, come l’esproprio, non può e non deve rimanere “di fatto”, ma deve tramutarsi in un titolo di acquisizione delle aree legittimo e trascrivibile (tale è il decreto ex art. 42-bis del D.P.R. 327/2001, così come prevede il comma 4 della norma stessa, e con tutte le difficoltà di trascrivere il titolo e poi l’atto di avverata condizione del pagamento; ostacoli che la prassi ha reso ben note agli operatori del settore), la cui emanazione promana motu proprio dall’Amministrazione e non necessita di “avvio del procedimento” (vedasi il par. 11.6 di C. Stato, A.P., 20/01/2020, n. 5, in commento), giacché “valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile”.

POSSIBILE CONFLITTO CON UN GIUDICATO RESTITUTORIO IN SEDE CIVILE
Fissate queste premesse, il Collegio risponde alla domanda sul possibile conflitto con un giudicato restitutorio in sede civile ed osserva che la sentenza coperta da giudicato in senso sostanziale, ex art. 2909 del Codice civile, fa stato tra le parti, i loro eredi ed aventi causa, nei limiti oggettivi costituiti dai suoi elementi costitutivi, ovvero il titolo della stessa azione (causa petendi) e il bene della vita che ne forma oggetto (c.d. petitum mediato).

Appare, dunque, evidente come, se oggetto del petitum è il recupero del bene alla piena proprietà e disponibilità del soggetto privato originariamente proprietario, non rientra nell’ambito oggettivo del giudicato, e dunque non si pone in contrasto con lo stesso, un provvedimento che, senza incidere sulla titolarità del bene, imponga sullo stesso ex novo (e, quindi, ex nunc) una servitù, trattandosi di ipotesi affatto diversa da quella inibita dal giudicato e assolutamente coerente con, e anzi presupponente, il mantenimento della proprietà in capo al privato.
A tali fini, deve osservarsi per completezza, come il comma 6 dell’art. 42-bis del D.P.R. 327/2001 non deve essere interpretato solo nel ristretto senso di consentire all’amministrazione l’emanazione di un provvedimento solo quando “è stata” imposta una servitù, poi venuta meno. Deve, invece, ritenersi che, una volta venuto meno il titolo di proprietà del bene (o di sua legittima disponibilità), la pubblica amministrazione, alla quale è riconosciuto il potere di avvalersi dell’art. 42-bis del D.P.R. 327/2001, in considerazione di quanto “modificato” sul bene appreso per la realizzazione dell’opera pubblica, può limitare l’esercizio del potere, e quindi procedere con limitazioni parziali delle facoltà e/o dei poteri connessi al diritto reale del privato, e dunque emanare decreti di imposizione di servitù, in luogo della piena acquisizione del bene medesimo (con corrispondente perdita dell’altrui diritto di proprietà).
Non solo ciò risulta “inferiore” negli effetti a quanto la norma consentirebbe, ma è anche coerente con il principio secondo il quale l’azione amministrativa deve comportare il minor sacrificio possibile delle posizioni giuridiche dei privati, in relazione all’obiettivo di interesse pubblico perseguito ed al suo concreto conseguimento.

Dunque, nessun conflitto di giudicato può sussistere se - anche prima della sentenza nell’ambito di un’azione restitutoria - l’Amministrazione emana il decreto ex art. 42-bis del D.P.R. 327/2001.
Infatti, la decisione in commento si riassume nel principio: “perché possa prodursi l’effetto preclusivo derivante dal giudicato restitutorio, occorre che la sentenza preveda espressamente, in accoglimento di una specifica domanda avanzata in tal senso dal ricorrente o dall’attore, la condanna dell’amministrazione alla restituzione del bene; per altro verso, l’effetto preclusivo, in quanto derivante, come si è detto, da una espressa condanna alla restituzione del bene, si realizza con riguardo al provvedimento ex art. 42-bis, comma 2, comportante l’acquisizione dello stesso alla proprietà pubblica (in particolare, al patrimonio indisponibile della medesima) e non può, quindi, inibire anche l’adozione del diverso provvedimento di imposizione di servitù, di cui al successivo comma 6”.
Infine, conclude: “laddove la finalità di pubblico interesse non risulta (o non risulta più) essere perseguita (o perseguibile) per il tramite del contratto, non può escludersi (…) che l’amministrazione possa intervenire sul rapporto insorto (ovvero sulle conseguenze di fatto di un rapporto comunque cessato) per il tramite dell’esercizio di poteri pubblicistici”.

Dalla redazione